Riportiamo la testimonianza di Angelo Raffaele Pace, promotore dell'autonomia comunale di Filiano.
Indice articolo
- Autonomia Comunale di Filiano. Ricordi
- Costituzione del Comitato Promotore
- Raccolta delle firme
- Ritrattazione di alcune firme
- Manifestazione popolare
- Festa patronale
- Ostruzionismo di Avigliano
- Deputazione provinciale
- Delimitazione dei confini
- Giunta Provinciale amministrativa
- A Roma
- Consiglio di Stato
- Filiano Comune autonomo
- Comitato consultivo
- I più attivi
- Conclusione
Filiano nel dopoguerra
Le condizioni di Filiano nel 1945 erano prevalentemente agricole. I contadini si industriavano con un più o meno numeroso pollaio, qualche maiale, la pecora, la capra, alcuni avevano anche pochi conigli. Ognuno cercava di essere autosufficiente per riuscire a vivere onestamente e a badare alla propria famiglia spesso numerosa. Quasi tutti avevano anche un cane ed un mulo o un asino, un cavallo e alcuni anche un traino, per assolvere meglio i loro impegni.
Non tutti erano proprietari dell'appezzamento di terreno che coltivavano. Molti erano affittuari o mezzadri. Non tutti possedevano una casa propria. Le abitazioni erano assai modeste per spazio e comodità. La maggioranza non aveva acqua corrente in casa, né tutti il gabinetto. Alcuni erano semplicemente operai che vivevano alla giornata, andando ad aiutare chi li chiamava.
Due erano i mulini elettrici e due i forni a legna. C'erano artigiani, calzolai, falegnami, muratori, fabbri, sarti, barbieri e commercianti con bazar, ossia venditori con un pò di tutto, persino con caffè, osteria e albergo. C'era l'ufficio postale con due impiegati; il prete, ma faceva parte della parrocchia di Avigliano. Vi erano quattro maestri in Filiano e una decina distribuiti fra Scalera, Dragonetti, Sterpito e Montecaruso.
A Filiano c'era l'Ufficio di Stato Civile per la registrazione delle nascite e morti. Mancava la farmacia, mentre il medico risiedeva a Filiano e, a piedi o su di un quadrupede del paziente, andava a visitarlo a Scalera, o Sterpito, o Montecaruso o altrove, con tutte le conseguenze del disagiato viaggio e del tempo che si impiegava.
Le uniche strade carrozzabili esistenti nel territorio e che consentivano l'auto erano per Filiano, Inforchia, Dragonetti, Vaccaro. Tutte le altre borgate ne erano prive. Per questo era inutile un'auto al medico. L'unico mezzo, quindi, nel futuro comune era il quadrupede e, per andare fuori, c'era il treno che bisognava raggiungere a Sarnelli con un'auto che tutte le mattine, alle sei, partiva da Filiano e tornava alle otto; nel pomeriggio tornava alla stazione a prelevare i viaggiatori al rientro da Avigliano, da Potenza o da Rionero, perché in genere quelle erano le mete quotidiane dei filianesi, che andavano al Municipio per certificati o perché chiamati per chiarimenti magari all'esattoria o alla Pretura o agli uffici provinciali, alla farmacia o per visite mediche specialistiche e spese in genere.
Il disagio per raggiungere Avigliano, comunque in non meno di due o tre ore, si faceva più grande quando, per economia o fretta eccessiva, vi si andava a piedi valicando il Monte Caruso e attraversando il bosco, specialmente se si incappava in una pioggia o bufera invernale.
Quanto squallore... visto a distanza di tanti anni!
E dire che ad Avigliano, sino ad alcuni decenni prima, bisognava portare anche i morti, perchè a Filiano non c'era nemmeno il cimitero. Ricordo che mio padre mi raccontava delle battaglie che alcuni volenterosi cittadini avevano condotto, presso la Prefettura di Potenza, per ottenerlo.
Vigeva una sorta di rassegnazione al tenore di vita che in genere menavano tutti i cittadini: lavoratori accaniti che si accontentavano di poco per vivere onestamente. Ancora imperava l'analfabetismo. In Filiano centro si vendevano forse in media cinque copie di quotidiani al dì e non più di altrettante "Domenica del Corriere" alla settimana. Alquanto diffuse erano le radio. Non vi erano diversivi oltre i due bar-cantine che divenivano luoghi di incontro a sera per un paio d'ore, specialmente il sabato e la domenica anche di mattina.
Nei giorni di festa c'era un movimento insolito perché affluivano in molti da tutti sobborghi portandosi anche il cavallo, il mulo o l'asino, quasi sempre seguiti da un cane, spesso un buon pastore dal collo fasciato di piastrine metalliche e chiodi per difenderlo dai lupi che ogni tanto assalivano le greggi.
Il sabato era affollato il barbiere perché l'indomani gli uomini dovevano presentarsi a festa per corteggiare o "vedere" solamente qualche fanciulla che andava a messa e attenderla all'uscita, quando anch'ella faceva mostra del suo bel viso roseo, intrattenendosi un poco in piazza a conversare con qualche amica che non vedeva da una settimana.
Ricordo che allora la piazza SS. Rosario e la piazza Fontana (oggi Vito Reale) erano luoghi di incontro alquanto affollati. Le conversazioni dei concittadini riflettevano sempre i lavori fatti o da farsi, l'esperienza dei “concimi” che vendeva il consorzio agrario, l'opportunità della rotazione nella coltura dei campi, la ricerca da parte dei giovani di un posto in ferrovia, o come carabiniere, o agente di custodia, comunque di un lavoro più redditizio che, insomma, garantisse una vita più umana. Questo desiderio di miglioramento era dovuto anche ai reduci dalla guerra cui avevano partecipato in tanti, che avevano notato la diversità di vita nel Nord Italia, in Francia, Inghilterra o Germania dove erano capitati per le varie vicissitudini militari. Tanto che i reduci sentivano il bisogno di incontrarsi e mi sollecitarono a costituire una sezione di ex combattenti e reduci, appunto per uno scambio di idee e progetti, per informarsi se e quali provvedimenti adottasse il governo a loro favore. Naturalmente essi sapevano che io, quale ex ufficiale dell'esercito, fossi meglio informato e adatto a dare suggerimenti circa il da farsi. Eravamo tutti pieni di speranze e ancora incerti sulle nostre scelte future, essendo più o meno squattrinati e desiderosi di non essere costretti ad emigrare.
Personalmente avevo in serbo la proposta fattami a Parma dal generale Mario Roveda, il quale mi esortava a tornare a Parma per passare, col grado di tenente, nella polizia che si stava per ampliare o rinforzare. Ma ero molto titubante nel decidermi ad abbandonare di nuovo gli affetti familiari ed intraprendere ancora... un'avventura. Forse dovevo decidermi a fare il maestro, o tentare la via della previdenza sociale presso la quale allora pareva assumessero impiegati.
Tanti tentavano comunque l'esperienza di un posto fisso, tranquillo, o si adattavano alla misera vita campagnola e di artigianato. Nessuno dei miei colleghi maestri pensava di allontanarsi.
Ad ottobre 1945 ebbi l'incarico annuale di insegnante a Filiano. Quindi ero quasi deciso a rimanere, salvo eventuali nuove prospettive che non mi avessero però allontanato dall'affetto dei miei cari familiari, genitori, fratelli, nipoti.