Quanto resta, oggi, del patrimonio tradizionale della nostra società rurale?
“Sono questi gli ultimi echi d’un vecchio mondo, cui noi già diciamo addio per sempre, son gli ultimi ricordi di tempi, ch’eran pure sì belli nella loro semplicità e nelle loro costumanze gioconde e pittoresche. La vita, sfrondata delle antiche illusioni ed abitudini, si fa seria e monotona, e a noi, figli del secolo delle macchine e del materialismo, non resta che un vuoto, un «desiderio vano di bellezza antica».”, così significava lo storico maceratese Domenico Spadoni nel 1899.
Al pensiero dello Spadoni fa eco l’antropologo Ernesto De Martino che agli inizi degli anni ’50 scriveva: “L’attuale risveglio di interessi per la vita culturale tradizionale delle classi popolari ha bisogno di essere ancora metodologicamente fondato, e di giustificarsi in modo serio e persuasivo di fronte alla cultura nazionale. Perché, oggi, dobbiamo raccogliere il nostro «folklore», o, come direi meglio, il nostro materiale etnologico nazionale? Perché dobbiamo studiarlo?”.
La risposta. Dobbiamo raccogliere il nostro «folklore» perché il patrimonio culturale della società rurale agricola e contadina, con la scomparsa degli ultimi depositari di quanto resta del suo patrimonio originario, non sparisca nel nulla. Dobbiamo raccogliere quel patrimonio perché possa essere consegnato alla storia dell’uomo, studiarlo perché è l’unico modo per penetrarlo e intenderlo ed è l’unico modo corretto d’approccio per chi non ha vissuto la cultura popolare dal di dentro quand’essa era ancora pienamente vigente.
Però, avvertiva De Martino, “il folklore non è solo tradizione, memoria presente del passato, ma contiene anche motivi progressivi, vivaci riflessi delle aspirazioni attuali del mondo popolare, e accenni e indicazioni verso il futuro”. Se la spinta verso il futuro viene meno, anche la tradizione perde valore e significato, resta la pura coreografia, che non è folklore, resta un rito che, persi gli agganci con il mito, non rende più ragione del suo senso o resta un mito che, senza più tradursi in rito, diventa insignificante.
L’Associazione Pro Loco di Filiano, nel riproporre annualmente “Lu Muzz’c - Giornata tipica del mietitore” nell’ambito delle manifestazioni agostane, intende assumersi il (meritevole!) compito di riattribuire al «folklore» il suo significato originario ed il suo autentico valore.
Nella civiltà rurale non esisteva altra alternativa di lavoro per i giovani che, in massa, perpetuavano quello paterno. Le giornate lavorative e le stagioni scorrevano secondo un ritmo collaudato addirittura da secoli. Tra le cadenze più importanti vi era quella della mietitura del grano. “Lu Muzz’c - Giornata del mietitore” è una manifestazione nata perché la memoria non si perda e i giovani possano conoscere e ricordare l'immane fatica della mietitura, riproponendo le tradizioni che l'accompagnavano.
L’ars culinaria è un ottimo strumento per scoprire, apprezzare e godere la complessa realtà rurale in una dimensione aldilà del tempo. Ricette e piccoli segreti nascondono le lunghe e sacrali preparazioni legate alla lavorazione delle materie prime o agli eventi vissuti dalla comunità. L’antico calendario agrario, segnando l’alternarsi delle stagioni, gestisce i ritmi lavorativi dei campi, in tal modo genera momenti singolari di aggregazione sociale che si concretizzano generalmente in “eccessi culinari”. Durante la mietitura il contadino ha il “diritto” di mangiare sei/sette volte accompagnando ogni singolo pasto con abbondante vino. I sapori antichi pertanto richiamano concetti legati alla tradizione e all'originalità, sinonimi di una grande ricchezza culturale.
L’Associazione Pro Loco di Filiano ha voluto tributare un omaggio alla figura del mietitore, lavoratore strenuo e instancabile, con una manifestazione eno-gastronomica che è l’emblema di questo lavoro.
Lu Muzz’c – manifestazione nata da un’idea dell'ex presidente della Pro Loco di Filiano, sig. Paolo Spera – rappresenta una iniziativa di grande notorietà e successo che coinvolge un po’ tutti gli abitanti del paese. Lungo le vie del corso principale del paese si realizza un percorso eno-gastronomico - rappresentato da sette postazioni per simboleggiare le fasi che scandivano l’attività giornaliera dei mietitori – all’interno del quale sarà possibile degustare le stesse pietanze che il mietitore consumava dall’alba al tramonto.
La mietitura iniziava alle quattro e trenta circa, prima del sorgere del sole, con il primo pasto, lu cantariedd (pane bagnato con vino e cipolla).
Secondo tradizione, verso le sette/otto del mattino vi era la colazione, la luata ‘r secch, con la ciambotta (patate, zucchine, verdure, e altro ancora).
Alle dieci e trenta seguiva uno spuntino, lu prime muzz’c, con un pezzo di pecorino, pane e uovo sodo.
Poche ore più tardi, intorno alle dodici/tredici, era la volta del pranzo principale, lu ‘dinn, con pasta di casa con sugo di salsiccia.
Alle sedici e trenta, si consumava la murenn’a (frittata), seguita, al calare della sera, verso le diciannove e trenta, da la calata ‘r lu sole (biscotto e un bicchiere di vino).
Il lavoro si protraeva spesso sino a notte inoltrata e, allora, verso le ventuno, ventuno e trenta, vi era l'ultimo pasto della giornata con pane e affettati.
Il visitatore acquistando un biglietto d’ingresso potrà fruire del vino e delle cibarie offerte in ciascuno dei sette stand predisposti.
Filiano è pronto ad accogliere numerosi ospiti con varie portate tipiche legate alla tradizione culinaria locale allo scopo di stimolare e deliziare i loro sensi. Lungo il corso a stregare il pubblico le note travolgenti della musica popolare con giovani organettisti locali e in piazza musica liscio per chi desidera ballare. Musica e libagioni fino a notte fonda: perché il piacere deve essere lento, atteso e lentamente consumato. Nel mangiare come in amore.
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